Le relazioni pericolose tra malattie autoimmuni e metaboliche

Selmi-Carlo-Francesco366x420VNel corso degli ultimi 10 anni i progressi fatti nell’ambito della ricerca e dello studio delle cause delle malattie multifattoriali hanno portato a mettere in discussione la visione tradizionale, suggerendo, sulla base di numerose affinità tra i disturbi immunitari e metabolici, un approccio clinico comune e l’osservazione delle due patologie attraverso un’unica lente. Ne parliamo con il dottor Carlo Selmi, Capo Sezione di Immunologia Clinica e responsabile del Laboratorio di Autoimmunità e Metabolismo, Docente presso l’Università degli Studi di Milano.

 

Quali sono i legami tra il sistema immunitario e il metabolismo?

“Le scienze biomediche necessitano di un rigoroso approccio metodologico che potrebbe fornire prove concrete del fatto che scenari dati per consolidati risultano in realtà essere ormai già obsoleti.
Uno degli esempi principali consiste nella necessità di abbandonare la netta distinzione tra metabolismo e immunità. Anche la dicotomia tra immunità innata e immunità adattiva appare ormai superata. Quanto detto segue una logica che risulta comune solo in apparenza: il corpo umano deve essere considerato nella sua interezza, e le interazioni devono essere integralmente districate e svelate; è necessario abbandonare l’ottica dell’analisi di diversi sistemi chiusi, in favore di un’ottica globale che considera le reciprocità esistenti ai vari livelli. Siamo perfettamente a conoscenza dell’elevato rischio di infezioni nei pazienti affetti da diabete e, dall’altro lato, conosciamo bene anche l’elevato rischio a livello cardiovascolare nelle patologie infiammatorie croniche quali ad esempio l’artrite reumatoide. E ancora, l’ipercolesterolemia nei pazienti affetti da patologie autoimmuni colestatiche rappresenta una compromissione metabolica. Quindi metabolismo e immunità (e autoimmunità come esempio principale) si sovrappongono e coincidono nella medesima condizione, ossia nel medesimo paziente”.

Quali sono le conseguenze dell’evoluzione della ricerca di laboratorio?

“Le categorizzazioni non sono più concepibili e i modelli di sperimentazione sono sempre più complessi a causa dell’insorgenza di un gran numero di variabili. Questo si aggiunge ad una ben nota limitazione dei modelli sperimentali cellulari, la cui durata di vita non riflette quella umana. Anche nel caso in cui si tenga conto delle debolezze e delle difficoltà, lo studio dei legami tra metabolismo e immunità è sicuramente molto impegnativo ma al contempo stimolante.
Nelle patologie autoimmuni un’iperattivazione del sistema immunitario dipende da un errore nella selezione negativa che risulta essere fisiologicamente responsabile della tolleranza. La conseguenza, come già sapevamo, è l’infiammazione cronica ma, come hanno evidenziato recenti studi, a questa si aggiunge lo squilibrio metabolico. L’obesità e ancor più la sindrome metabolica sono dei buoni modelli esemplificativi nei quali il tessuto adiposo in eccesso perpetua l’infiammazione”.

Da un punto di vista clinico, come dovrebbe essere analizzato questo scenario?

“Per un clinico il punto focale è sancire la fine del trattamento settoriale del paziente ed il ritorno ad una prospettiva globale e multidisciplinare. Ciò comporta una rivoluzione culturale che implica una parziale revisione nella pratica della Medicina interna. Con riferimento al metabolismo e all’immunità possono essere formulati alcuni esempi. L’ipotesi legata all’igiene risulta essere particolarmente stimolante e suggerisce che nei primi anni di infanzia la mancanza di esposizione ad agenti infettivi, microorganismi simbiotici (ad esempio flora intestinale o probiotici) e parassiti, reprime e inibisce il naturale sviluppo del sistema immunitario e accresce la suscettibilità e la sensibilità a patologie allergiche o autoimmuni, come è stato dimostrato dal loro incremento nella popolazione giovanile residente nei paesi avanzati e, al contrario, da una bassa concentrazione delle stesse patologie nei paesi in via di sviluppo.
Questa ipotesi fornisce delle spiegazioni in merito agli aspetti epidemiologici legati alle patologie autoimmuni che risultano avere elevati tassi di incidenza nelle regioni settentrionali di Europa e America.
Recenti studi realizzati da alcuni ricercatori dell’Università di Monaco e pubblicati su New England Journal of Medicine hanno messo a confronto l’incidenza di asma e atopia in due ampi gruppi di bambini, tra i quali alcuni vivevano in zone rurali e altri in distretti urbani. L’incidenza di entrambe le condizioni è risultata essere inferiore nei bimbi che risiedono in territori non urbanizzati, e sono perciò esposti ad una maggior varietà di microorganismi ambientali.
Un altro studio è stato realizzato da alcuni pediatri italiani che lavorano a Firenze ed è stato pubblicato su Proceedings of the National Academy of Science (PNAS). Si sono concentrati su un interessante collegamento che hanno riscontrato esistere tra metabolismo e immunità: il microbioma intestinale. Gli autori hanno riscontrato significanti differenze nello composizione microbica dell’intestino di i bambini europei e bambini provenienti da alcuni villaggi rurali situati in Burkina Faso dove la dieta, molto ricca di fibre, risulta essere simile a quella dei primi insediamenti umani risalenti ai tempi della nascita dell’agricoltura.
Il microbioma intestinale degli individui africani probabilmente consente loro di massimizzare l’apporto energetico tratto dalle fibre e li protegge da infiammazioni e patologie non infettive che interessano il colon”.

Questi esempi vanno oltre le rigide considerazioni mediche.

“Indubbiamente; possono arrivare a comprendere una vasta gamma di riflessioni, includendo anche questioni economiche. Mi spiego meglio. È stato dimostrato che reddito familiare e livello di scolarizzazione sono fattori indipendenti di rischio nella cirrosi biliare primitiva, una malattia autoimmune del fegato. Si tratta infatti di ciò che gli statistici hanno denominato proxy (sorta di intermediari); maggiori livelli di reddito e scolarizzazione riflettono probabilmente in maniera indiretta una più elevata qualità a livello di assistenza sanitaria, una maggiore consapevolezza e una maggiore competenza che insieme facilitano il riscontro delle patologie rendendolo più agevole nelle popolazioni che appartengono a gruppi sociali più ricchi e con più elevati livelli di scolarizzazione (questo è particolarmente vero per le patologie che non causano dolore come appunto la cirrosi biliare primitiva). Ciò si riscontra in modo ancora più marcato negli Stati Uniti, dove l’assicurazione privata garantisce diversi livelli di copertura. Ecco un altro esempio. Le patologie autoimmuni interessano maggiormente le donne di mezza età, periodo della vita in cui gli equilibri a livello ormonale cambiano e in cui l’azione cumulativa dei fattori ambientali e dei composti chimici può mostrare i suoi effetti. Tra gli ultimi, ossia tra i composti chimici, sono stati chiamati in causa cosmetici, smalti per unghie o tinture per capelli, sebbene i dati a riguardo siano ancora in parte conflittuali, e si sottolinea nuovamente come il loro uso sia legato al potere d’acquisto delle persone.
I presunti meccanismi che supportano la teoria secondo cui i prodotti chimici svolgono un ruolo nel causare le patologie in esame sono proprio quelli tipici dell’autoimmunità: mimetismo molecolare o modificazione di autoantigeni. O, perlomeno, la combinazione tra la presenza di un background genetico sensibile e l’esposizione ad alcuni attivatori ambientali. È diffusamente riconosciuto che la patogenesi delle malattie autoimmuni è multifattoriale; fattori genetici e ambientali interagiscono determinando l’insorgenza e la progressione della patologia. In merito a quanto detto, gli studi sui gemelli monozigoti sono molto utili al fine di determinare se una patologia è causata da fattori genetici o ambientali. L’identità genetica e la condivisione dello stile di vita eliminano numerosi dubbi in merito all’origine della patologia. Quindi elevate percentuali di concordanza supportano la prevalenza dei fattori genetici e al contrario ridotte percentuali di concordanza suggeriscono il coinvolgimento di fattori epigenetici e ambientali. Ma c’è un problema, ossia la limitatezza dell’applicazione degli studi sui gemelli che risiede nella limitata disponibilità di banche dati che raccolgano le coppie di gemelli presenti. In Italia si è ovviato al problema grazie ad una iniziativa nata nel 2001 : il cosiddetto Registro Gemelli, curato dall’Istituto Superiore di Sanità. L’opportunità di creare un banca dati in cui attualmente figurano alcuni milioni di gemelli è stata resa possibile dall’esistenza nel nostro Paese del codice fiscale. Una banca biologica è stata successivamente implementata, garantendo la possibilità di reperire informazioni in merito fattori genetici e modificabili riguardanti menomazione fisica, disabilità, cancro, patologie cardiovascolari e altre malattie croniche”.

Quale sarà il futuro nel trattamento e nella cura delle patologie?

Consigli in merito allo stile di vita e alla cura dell’igiene diventeranno sempre più importanti e saranno tra loro simili anche in presenza di patologie diverse; ad esempio la perdita di peso è consigliata sia nel caso di artrite reumatoide che nel caso di diabete. Altri fattori insospettabili, quali ad esempio il fumo di sigaretta, presentano un collegamento diretto con l’insorgenza di autoimmunità sistemica; questo è stato riscontrato e comprovato ancora una volta nell’artrite reumatoide.
Crescerà l’importanza delle terapie studiate sul singolo. La personalizzazione è basata sulla farmacogenomica e la terapia viene formulata sulla base della patologia e del paziente.
Significativi esempi in merito a quanto detto sono forniti dalla ricerca sulle mutazioni genetiche, finalizzata alla prevenzione degli effetti collaterali dei farmaci immunosoppressosi, quali l’azatioprina. Ad ogni modo il reale potenziale dei molteplici farmaci che abbiamo a disposizione non è ancora stato definito.
Dozzine, se non addirittura centinaia, di farmaci – in particolare farmaci biologici e anticorpi monoclonali – sono stati ampiamente studiati in vitro, ma non sono ancora state opportunamente studiate le loro applicazioni cliniche. Con tutta la schiera di potenziali strumenti che abbiamo a disposizione sorge un problema: più si velocizzerà l’impiego nell’attività clinica, più si accorceranno i tempi degli studi sulla sicurezza dei farmaci e questo è particolarmente vero nei casi di patologie che hanno un forte impatto sociale. Attualmente uno dei criteri su cui si basa la considerazione di adeguatezza di un farmaco è la sua notorietà, come accade ad esempio per l’Infliximab. Un’ulteriore questione è l’accuratezza del profilo genetico ed epigenetico che può essere raggiunta con tempi e costi relativamente limitati. La rapidità del progresso è stata esponenziale e talmente rapida da far sembrare che gli studi di Craig Venter e degli NIH sulla sequenza del genoma umano risalgano alla preistoria, quando in realtà risalgono a meno di 15 anni fa”.